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Distruzione di beni, quali adempimenti effettuare?

Frequentemente in azienda si trovano beni strumentali e non che devono essere smaltiti in quanto non mostrano più alcuna utilità.

Tale verifica andrebbe effettuata entro la fine di ogni esercizio al fine di evitare che nei registri aziendali (registro beni ammortizzabili, inventario, magazzino fiscale, ecc.) si riscontrino dei beni che non sono nemmeno più presenti nella sede aziendale.

E la conseguenza di un simile riscontro potrebbe portare anche alle conseguenze previste dall’art.1 del DPR n. 441/97 che stabilisce che “si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni, né in quelli dei suoi rappresentanti“ e tale presunzione non opera qualora il contribuente sia in grado di dimostrare che i beni sono stati distrutti osservando tale procedura.

Al fine di “eliminare” tali beni sono quindi possibili più opzioni:

Per i beni con un valore al di sopra dei 10.000 Euro:

Innazitutto occorre inviare una comunicazione all’Agenzia delle Entrate oppure ai Comandi della Guardia di Finanza competenti del luogo dove avviene l’operazione di distruzione (la sede dell’impresa non ha rilevanza in questo caso). La comunicazione deve essere inviata almeno 5 giorni prima l’inizio delle operazioni di distruzione per consentire ai funzionari di essere presenti.

La comunicazione deve contenere:

  • il luogo la data e l’ora delle operazioni di distruzione;
  • le modalità di distruzione;
  • la natura dei beni;
  • l’ammontare complessivo dei beni;
  • il valore eventualmente ottenibile della distruzione.

La procedura prevede la compilazione del verbale redatto dai pubblici ufficiali, che devono essere presenti al momento della distruzione.

Dal verbale devono risultare:

  • data, ora e luogo in cui avvengono le operazioni;
  • natura, qualità, quantità ed ammontare del costo dei beni distrutti o eventualmente trasformati.

Infine occorre compilare un documento di trasporto per seguire la movimentazione dei beni eventualmente ottenuti dalla distruzione. Il documento come sempre deve essere numerato progressivamente e deve riportare il destinatario, la data, la natura e quantità dei beni nonché la causale del trasporto.

Per i beni con un valore al di sotto dei 10.000 Euro:

E’ possibile procedere in proprio alla distruzione dei beni, senza effettuare alcuna comunicazione ed avvalendosi dell’autocertificazione per la verbalizzazione delle operazioni attraverso una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà. Nella dichiarazione devono risultare: data, ora e luogo in cui avvengono le operazioni, nonché natura, qualità, quantità e ammontare del costo dei beni distrutti e/o trasformati.

– Cessione a condizioni di realizzo

Per completezza è bene precisare che esiste una terza opzione (sia per i beni al di sopra dei 10.000 euro che per quelli al di sotto), che consiste nell’emettere una fattura di vendita del bene o della merce ad un soggetto (ad es.: socio della società) il quale, al prezzo pattuito nella fattura, acquista il bene. In questo caso non deve essere effettuato nessun adempimento ma il bene o la merce venduta devono avere un valore corrispondente al valore di “realizzo” ossia al “valore normale”. Nel caso in cui l’azienda sia una ditta individuale, è possibile emettere un’autofattura per l’autoconsumo del bene.

Se quest’ultima soluzione sembra senz’altro la più agevole, è necessario tenere in considerazione che l’attribuzione di un valore di realizzo potrebbe esporre l’azienda al rischio di contestazione, da parte dell’Agenzia delle Entrate, sul valore indicato.

Fattura non pervenuta, cosa fare?

Può capitare che l’acquirente o committente non riceva la fattura d’acquisto.
Vediamo quali sono le procedure da porre in essere per evitare l’irrogazione di sanzioni amministrative che in questo caso sono pari al 100% dell’imposta, con un minimo di Euro 258,00 per singola violazione (Art. 6 D.Lgs. n. 471/97).

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Riduzione dell’orario di lavoro solo con accordo scritto

 

Riduzione dell’orario di lavoro solo con accordo scritto

 

Nell’attuale diffusa situazione di crisi, può verificarsi che il datore di lavoro, al fine di ridurre gli oneri connessi al mantenimento dei livelli occupazionali e per adeguare la presenza in servizio dei propri dipendenti ai ridotti volumi di attività, diminuisca unilateralmente l’orario dei lavoratori o raggiunga con essi accordi verbali in tal senso.
A dissuadere, tuttavia, da tale tentazione le imprese è ritornata la Suprema Corte con una sentenza della fine del 2011 (Cass. 24476/11), nella quale si ribadisce, tra l’altro, che il datore di lavoro non può unilateralmente disporre la riduzione dell’orario di lavoro e della retribuzione del lavoratore.
Nel caso di specie, un imprenditore aveva unilateralmente ridotto l’orario di lavoro di un proprio dipendente, che si rivolgeva al giudice per ottenere il pagamento della retribuzione così perduta.
Il datore di lavoro si difendeva negando l’unilateralità della sua condotta ed affermando l’esistenza di un accordo sul punto con quel dipendente, come peraltro avvenuto in passato con altri lavoratori della sua impresa.
Dopo un primo grado di giudizio vittorioso, la Corte d’Appello condannava il datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive ed al ripristino del rapporto a tempo pieno in favore del ricorrente.
Analogamente, anche la Suprema Corte confermava la sentenza d’appello, ritenendo che – quand’anche fosse vero che la riduzione dell’orario di lavoro fosse stata concordata tra le parti, circostanza comunque non provata – in ogni caso tale pattuizione sarebbe stata radicalmente nulla, in quanto violativa dell’art. 5, co. 10, l. 863/84.
Tale norma, infatti, prevedeva la necessità della forma scritta “ad substantiam” per la riduzione consensuale di un rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.
Forma scritta non rispettata nel caso di specie, con la conseguenza che sarebbe stato inutile invocare l’esistenza di un’intesa verbale in materia.
Sebbene la norma in questione sia stata abrogata dalla l. 61/00, l’art. 5, co. 1, di tale articolato normativo mantiene tuttavia analoga previsione, perciò nulla è mutato sotto questo aspetto, con ogni conseguenza in ordine alla assoluta attualità della pronuncia in questione.
Viceversa, la norma di cui sopra è stata recentemente modificata dalla Legge di Stabilità per il 2012 (l. 183/11), che ha soppresso – a far data dall’1 gennaio 2012 – la necessaria e preventiva convalida dell’effettiva volontà del lavoratore di trasformare il contratto di lavoro dinanzi alla Direzione Territoriale del Lavoro competente (ex DPL), rendendo in tal modo più agevole l’operazione.

 

Trading online e fiscalità

 

Quali sono gli adempimenti fiscali per chi decide di effettuare Trading on-line?

Il Trading on-line può essere definito come la compravendita di titoli (azioni, obbligazioni, futures, ma non solo) direttamente tramite Internet.

In estrema sintesi, per il fisco contratti come forward, futures, option e attività da trading online in genere ricadono tra i  redditi diversi di natura finanziaria. Questi redditi scontano un’aliquota fissa del 20% a partire dal 1 gennaio 2012 .
Nel modello Unico detti redditi vanno dichiarati nel quadro RT se riferiti a flussi di denaro avvenuti attraverso un intermediario italiano registrato presso la Consob ed abilitato dalla Banca d’Italia, mentre andranno indicati nel quadro RW se riferiti a rapporti intrattenuti con operatori esteri,  unitamente alla debita descrizione dei movimenti di capitali da e verso l’estero, se l’importo cumulativo di tali trasferimenti, quindi ottenuto sommando sia bonifici che prelievi, supera la soglia dei 10.000,00 euro per anno solare.

Per i contribuenti che presentano il modello Unico, si dovrà così compilare il modulo RT e/o RW.

Essendo, invece il modello 730 sprovvisto dei suddetti quadri, i lavoratori dipendenti dovranno integrare il 730 con l’invio dell’Unico.

 

Se la Cassazione vuole dimostrare in giudizio una banale equivalenza

Pubblichiamo l’intervento di Giampiero Guarnerio, collega di Milano apparso su http://www.eutekne.info

Se la Cassazione vuole dimostrare in giudizio una banale equivalenza

Caro Direttore,
una vecchia barzelletta così recitava: “Il presidente di una multinazionale cerca un nuovo amministratore delegato. Alla domanda «Quanto fa 2 + 2?», il primo candidato, ingegnere, risponde: «Il risultato è compreso tra 3,99999 e 4,000001». Il secondo candidato, giornalista, risponde: «22». Il terzo, avvocato, risponde: «Nella causa Jenkins contro lo stato americano è stato dimostrato che 2 + 2 = 4». Il quarto, commercialista, risponde sottovoce: «Quanto vuole che faccia?»”.

Evidentemente, c’è del vero in questo “scherzo”: per chi gravita nell’area legale, e soprattutto nelle alte sfere, l’operazione matematica è un fatto che va dimostrato in giudizio. Persino una banale equivalenza.

La sent. 15250/2012 tratta il caso di un contribuente che concorda con l’Agenzia in sede di accertamento con adesione per l’esercizio 2004 un certo valore di rimanenze iniziali. Successivamente, riceve un altro accertamento sull’annualità precedente (2003) nella quale l’Agenzia, a seguito di accertamento induttivo, determina le rimanenze finali in misura superiore a quelle iniziali del 2004.
Ne segue un contenzioso e, nei gradi di merito, il contribuente vede riconosciuta la “continuità dei valori di bilancio” ex art. 92 comma 7 del TUIR (“le rimanenze finali di un esercizio nell’ammontare indicato dal contribuente costituiscono le esistenze iniziali dell’esercizio successivo”), con conseguente rigetto della pretesa erariale sul punto.

Interviene la Cassazione citata, che, sul punto, afferma: “Né giova al contribuente invocare l’avvenuto accertamento per adesione delle rimanenze iniziali all’1.1.04, onde inferirne che alla fine dell’esercizio 2003 il valore delle rimanenze non poteva che essere di pari importo. Ed invero, il principio di continuità dei valori di bilancio, sancito dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 59, se comporta che i valori finali dell’esercizio sono da considerarsi quelli gli iniziali del successivo, non implica anche che sia vero il contrario. In altri termini, accertate con adesione del contribuente le rimanenze all’inizio del 2004, non per questo – stante il principio di autonomia dei periodi di imposta, sancito dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 7 – devono essere considerate dello stesso valore anche le giacenze dell’esercizio precedente”.

Altrimenti detto, secondo la Cassazione, il fatto che A = B non comporta necessariamente che B = A.
E dire che i manuali di algebra si spingono addirittura a sostenere che se A = B e B = C, allora anche A = C (“proprietà transitiva dell’uguaglianza”).

Speriamo che presto capiti una sentenza Cass. SS.UU. che lo confermi.

Giampiero Guarnerio
Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Milano

Nonostante la Cassazione, non cediamo alla logica del diritto acquisito

Con la sentenza n. 13607 del 30 luglio 2012, la Corte di Cassazione ha riaffermato e, se possibile, ancor più rafforzato il suo orientamento in materia di imprescindibilità del principio del pro rata temporis ogniqualvolta vengono cambiate in peggio le regole per il calcolo della pensione.

In altre parole, qualsiasi modifica peggiorativa, resa tipicamente necessaria dall’esigenza di garantire la sostenibilità di sistemi previdenziali che, evidentemente, risultano più generosi di quello che i flussi contributivi e demografici prospettici consentono di mantenere nel tempo, deve essere disposta esclusivamente per il futuro.
Tutti i diritti sin lì maturati o, meglio, sino ad allora in corso di maturazione, non possono essere toccati e devono anzi considerarsi cristallizzati.

A prima vista, questa statuizione di principio può sembrare giusta e lo sarebbe, in effetti, se parlassimo di un contratto tra un assicurato e un ente che stipulano un accordo volontario.
Nell’istante in cui, però, questa granitica impostazione viene calata con la scure nel mondo della previdenza obbligatoria, la giustizia contrattuale si trasforma in iniquità generazionale.

Tutti i soggetti che risultano obbligati per legge ad iscriversi a una determinata gestione previdenziale sono come una grande comunità, nell’ambito della quale l’applicazione del principio del pro rata non si risolve semplicemente nella tutela del singolo, rispetto alle scelte “peggiorative” dell’ente, bensì si riflette anche in una contrazione dei diritti maturabili in futuro dai giovani tanto più pronunciata quanto, appunto, è maggiore il peso che gli si addossa per garantire l’intangibilità di quanto già maturato da chi li ha preceduti e che, a loro volta, non potranno maturare.

La logica del diritto acquisito, del chi c’è c’è, la fa da sempre da padrona in Italia e quella che da anni porta avanti la Corte di Cassazione non è null’altro che la sua concettualizzazione e sistematizzazione giuridica in ambito previdenziale.
Vergognosa, quanto ottima come scusante per tutti coloro che non hanno voglia di impegnarsi in una dura lotta di cambiamento delle regole, prima, e delle mentalità, poi.

È evidente che il legittimo affidamento di chi pensava di star maturando un determinato diritto merita adeguata tutela, ma questo è tutto un altro paio di maniche.
Un conto è dire che i cambiamenti di regole all’interno di un corpo sociale, se si attuano, si attuano per tutti, prevedendo a latere dei meccanismi di attenuazione degli effetti peggiorativi (che investono tutti, senza cittadini di serie A e di serie B), per tenere conto del legittimo affidamento di chi aveva già in corso di maturazione dei diritti.

Un conto è concettualizzare che, quando si cambiano le regole all’interno di un corpo sociale, si possono cambiare soltanto per il futuro e il costo dell’insostenibilità, che ha reso necessario quel cambiamento al ribasso, lo si mette per intero a carico delle nuove generazioni.
È questa seconda logica che sta portando il Paese ad un declino sempre meno reversibile, a causa di un passato che molti, troppi vogliono proteggere anche a costo di pregiudicare il futuro.

Possiamo ripartire solo passando alla logica dei diritti acquisibili da tutti

Solo passando dalla logica del diritto acquisito da alcuni alla logica dei diritti acquisibili da tutti si potrà ipotizzare una ripartenza e si potrà parlare di veri patti tra generazioni.
Non vi è dubbio che la coperta si è accorciata molto e che, per alcuni anni, bisognerà fare di necessità virtù.
Se, però, il modello di solidarietà familiare che vogliamo costruire, per superare questa congiuntura difficile, è quello del padre che aiuta il figlio adulto a pagarsi l’affitto o il mutuo, invece di quello del figlio adulto che aiuta il padre a pagarsi la badante, rassegniamoci allora ad essere già oggi un Paese di zombie che camminano.

Noi, nonostante pure la Cassazione ci continui a mettere del suo, non ci rassegniamo.
Proprio no.

Articolo di Enrico Zanetti

Fonte: http://www.eutekne.info

Furto, smarrimento e distruzione di documenti contabili, come procedere.

In caso di furto, smarrimento o distruzione accidentale dei documenti contabili manca una norma specifica che ne disciplini le conseguenze.

L’articolo 39 comma 2 lettera c), specifica che, qualora le scritture contabili non siano disponibili per “causa di forza maggiore”, l’Ufficio ha il potere di determinare induttivamente il reddito, avvalendosi anche di presunzioni semplici.

La giurisprudenza pare concorde nell’affermare che il contribuente, successivamente all’evento dannoso, abbia il dovere di adoperarsi per ricostruire i dati e gli elementi contenuti nelle scritture andate perse.

In particolare la R.M. n. 445366 del 27/7/91 ha previsto l’obbligo di annotare nuovamente le registrazioni sul registro bollato aziendale, apponendo su ciascuna nuova pagina il riferimento al numero di foglio corrispondente alla precedente registrazione andata perduta. Attualmente l’obbligo di vidimatura sussiste solo per i c.d. registri sociali (libro soci, assemblee, cda, ecc.).

Nel diverso caso in cui la perdita riguardi anche le fatture, e in generale i documenti probatori dei fatti di gestione, il contribuente avrà l’arduo compito di contattare tutti gli interlocutori (clienti, fornitori, banche ecc.) per reperirne le copie necessarie.

Infatti, in base alla sentenza della Cassazione n. 10238/97, incombe al contribuente l’onere di provare l’affermata distruzione dei documenti contabili, e ciò in quanto, la enunciazione di un fatto positivo deve essere provata da chi lo adduce.

In sostanza, in caso di furto, smarrimento o distruzione dei documenti contabili è bene attuare delle semplici operazioni:

1) effettuare una denuncia alle competenti autorità di pubblica sicurezza (es.: carabinieri) ai fini della prova che tali documenti non sono più presenti in originale presso il contribuente;

2) procedere alla richiesta delle copie dei documenti (richiedendole ai clienti e ai fornitori, ristampare i registri se tenuti con modalità informatiche);

3) ricostruire le operazioni effettuate (ad es: controllo dei movimenti di cassa al fine di ricostruire il registro dei corrispettivi);

Queste semplici operazioni assicureranno il contribuente da eventuali richieste pretestuose dell’Agenzia delle Entrate. Ricordiamo, tra l’altro, che nessuna norma stabilisce che sia obbligatoria e/o necessaria una comunicazione all’Agenzia delle Entrate.

Abolizione delle tariffe professionali

Con l’abrogazione delle tariffe e l’istituzione dell’obbligo di preventivo, è stato fatto un passo importante verso la liberalizzazione delle professioni.

Il nostro Studio non è contrario alla liberalizzazioni, anche se possiamo affermare che queste novità genereranno sicuramente qualche problema applicativo.

Anche l’obbligo di preventivo va senz’altro a favore dei clienti, che potranno più agevolmente comprendere e verificare quale potrà essere il costo del professionista. La difficoltà maggiore sarà quella di stabilire un compenso quando la prestazione non sarà determinata o determinabile, oppure quando lo Stato, in corso d’opera, richiederà ulteriori adempimenti fiscali rispetto a quelli preventivati.

A ns avviso un intervento più incisivo, in tema di liberalizzazioni, sarebbe quello di verificare quali siano i diritti acquisiti inviolabili che vantano alcune categorie, tra cui quella politica. Infatti nel momento in cui lo Stato preclude ai nuovi arrivati di acquisire a loro volta tali diritti, questi diventano in tutta evidenza dei veri e propri privilegi.

Dott. Maurizio Ortenzi

Mancato invio certificazione

Domanda: Nonostante i numerosi e continui solleciti al sostituto d’imposta, non ho mai ricevuto la certificazione delle ritenute d’acconto; come mi devo comportare?

Risposta: Ai sensi dell’art. 4, commi 6-ter e 6-quater, DPR n. 322/98 il sostituto d’imposta è tenuto a rilasciare ai percettori entro il 28.2 dell’anno successivo, una certificazione attestante l’ammontare delle somme corrisposte e delle ritenute operate. Purtroppo troppo spesso ciò non avviene.

Bisogna tener conto del fatto che il sostituto d’imposta è l’unico soggetto che può essere ritenuto responsabile della mancata corresponsione delle ritenute all’Erario.

Di questo tema se ne è occupata l’Agenzia delle Entrate, con la Risoluzione  del 19.3.2009, n. 68/E, la quale ha riconosciuto al contribuente, che non sia in grado di esibire la certificazione rilasciata dal sostituto d’imposta, di scomputare legittimamente quanto subito “… a condizione che sia in grado di documentare l’effettivo assoggettamento a ritenuta tramite esibizione congiunta della fattura e della relativa documentazione, proveniente da banche o altri intermediari finanziari, idonea a comprovare l’importo del compenso netto effettivamente percepito, al netto della ritenuta, così come risulta dalla predetta fattura”.

Il contribuente, pertanto, potrà comunque scomputare la ritenuta previa predisposizione della seguente documentazione:

– copia della fattura emessa; – documentazione bancaria attestante quanto percepito; – dichiarazione sostitutiva di atto notorio nella quale il contribuente dichiara, sotto la propria responsabilità, che la documentazione attestante il pagamento si riferisce ad una fattura  regolarmente contabilizzata, a fronte della quale non vi sono stati altri pagamenti da parte del sostituto d’imposta.

Doppia fatturazione

Domanda: “Ho emesso per sbaglio due fatture con la stessa numerazione. Cosa devo fare?”

Risposta: L’emissione di fatture puo’ legittimamente operarsi con l’adozione delle c.d. particelle “bis”. Ciò è stato confermato dalla Commissione Tributaria di secondo grado di Aosta (decisione 9 del 21 ottobre 1976) che precisa: “la correzione di errori nella numerazione delle fatture può operarsi con l’adozione della particella bis, ecc.. tale correzione mentre non altera la sequenza numerativa, vale a contraddistinguere e a individuare le fatture nel senso voluto dall’art. 21 dpr 633/72″